Storia di un combattente curdo

La prima mattina che ci svegliamo a Mehser ci dirigiamo al cortile della moschea, stretti nei cappotti per il freddo, a fare colazione con gli abitanti del villaggio. E’ lì che fortuitamente incontriamo Redush; non sappiamo chi sia nè cosa cerca di comunicarci.

I dubbi si diradano quando tira fuori il telefono ed inizia a mostrare delle foto: immagini crude, uomini con divise diverse stesi tra le macerie, morti nel loro sangue; teste mozze vicino ai drappi neri di Daesh. Ora capiamo; è uno dei combattenti delle YPG e la conferma è l’ultimo video che ci mostra: è un mio compagno, ci fa intendere, mentre sullo schermo scorrono le immagini di un corpo giovane che viene avvolto in sudario, come gli eroi.
Decidiamo d’intervistarlo sul tetto della moschea; lui acconsente e risponde alle nostre domande nonostante sembri metterlo a disagio disseppellire certe storie.
Inizia il suo racconto descrivendoci la situazione sul fronte di Kobane: l’ISIS, da mesi, si è attestato sulle terre intorno alla città assediandola. Dentro le sue mura però controlla solo una piccola parte nel quadrante est. Il resto è sotto il controllo di YPG/YPJ che fa pagare ogni piccolo avanzamento degli jihadisti con un pesante tributo di sangue. Si domanda perchè, mentre loro trattano umanamente i i prigionieri, ogni guerrigliero curdo caduto nelle mani nemiche è destinato inesorabilmente a perdere, oltre la testa, anche i piedi. Ad una superflua morte violenta si aggiunge l’oltraggio. Sugli interventi aerei della coalizione scuote la testa: ci sono obbiettivi scoperti, facili da colpire eppure ogni bombardamento avviene dopo ore di combattimenti e su target assolutamente inifluenti.
Spera per i suoi compagni, ancora dentro la città. Lui è entrato clandestinamente in Turchia di notte, attraverso i campi minati, per curare le ferite di guerra. Gli è andata bene; ai curdi profughi o guerriglieri che passano il confine, l’esercito turco spara a vista o stringe manette ai polsi, percosse e minacce sono la migliore delle ipotesi. Per i terroristi di Daesh invece, per i loro riforimenti, le loro autobombe ed il loro fuoco d’artiglieria la porta è aperta notte e giorno.
Parlando delle unità di difesa del popolo YPG ci racconta della loro formazione, tre anni orsono quando, con lo scoppio della guerra civile in Siria, la regione del Rojava scelse la strada dell’autogoverno ed istituì una milizia popolare che difendesse la popolazione e l’esperimento del confederalismo democratico. Redush è nei loro ranghi fin dall’inizio ed i suoi compagni d’armi non sono solo kurdi, ma armeni, arabi, ezidi e chiunque si riconosca nei principi dell’uguaglianza, della libertà e della tolleranza reciproca. La pratica dell’autogestione permane pure nella battaglia: anche oggi, a Kobane, dopo ogni giornata le unità si riuniscono per fare il bilancio dei combattimenti e pianificare i giorni successivi.
La lotta epica che si sta combattendo in questi giorni a Kobane, sta dando i suoi frutti: circa un centinaio di effettivi dell’Esercito Libero Siriano hanno raggiunto il fronte per unirsi alle YPG/YPJ, altrettanti curdi peshmerga si sono aggiunti portando armi pesanti, artiglieria e mezzi ed è accertata la presenza di diversi combattenti volontari americani ed europei. Dopo Kobane l’attenzione e la solidarietà internazionale si sono alzate molto, ma sono due anni ormai che si resiste agli attacchi di ISIS contro il Rojava. Alla domanda, probabilmente superflua, su quando crede finisca questa guerra; risponde freddo: finchè sarà sostenuta dai governi non ci sarà pace, per il resto posso solo sperare.
Ringraziamo Redush, lo salutiamo lasciandolo sul tetto della moschea. Kobane è ancora lì, con le sue colonne di fumo, i suoi echi di morte, il suo orgoglio muto che sembra dire: di qui non si passa.