Storia di una madre kurda

Incontriamo Semire quasi per caso, nelle corsie dell’ospedale di Suruc, dove c’eravamo diretti per capire sul posto quale fosse il reale computo dei morti e dei feriti provenienti dal fronte, dopo l’esplosione del camion al confine di Kobane, il 29 Novembre.

Scambiamo due chiacchiere davanti a un cay caldo, seduti di fronte a un piccolo bar, nello spiazzale dell’ospedale.

Non è sola Semire, è venuta insieme a suo figlio Emir, un bimbo dalla faccia sveglia e gli occhi un po’ malinconici. Semire è una donna possente ed elegante, ha il capo incorniciato in uno scialle color ocra che ben si adatta ai suoi capelli biondi, ha uno sguardo fiero e una certa fermezza nella voce, mentre parla ci guarda fissa, non ci molla mai neanche quando scoppia a piangere. Non vuole essere ripresa né registrata, vuole essere solo ascoltata e questa più che un’intervista è il suo breve racconto, la storia di una madre, di una curda e ora di una profuga che ci ha chiesto, semplicemente, di far sentire la sua voce.

“E’ importante far sentire la nostra voce contro il massacro che sta avvenendo. Sono qui da due mesi, siamo scappati dalla guerra e qui ci ritroviamo sotto la stessa pressione. Da quattro anni gli YPG gestivano Kobane, la difendevano, poi l’Isis c’ha attaccato massacrando anche donne e bambini. Hanno bruciato i villaggi e distrutto le nostre case, hanno bruciato la nostra storia, la nostra identità, la nostra memoria e con essa il futuro dei nostri bambini. Prima i nostri figli potevano studiare, ora non hanno più niente, sono a casa senza un futuro. Emir è il mio figlio più piccolo, non può più studiare, non sa ancora né leggere e né scrivere e non conoscerà più la sua lingua. Mia figlia studiava per diventare ingegnere elettronico, anche lei è stata costretta a lasciare gli studi, ora piange appena legge i suoi libri. Mio figlio Hakki ha 17 anni, era all’ultimo anno di liceo, volevo diventasse dottore e invece è stato costretto a diventare un guerriero;ora combatte a Kobane, nonostante io non volessi che prendesse le armi ma lui è rimasto a lottare nella sua terra e per la sua terra. Non mi chiama più perché non vuole sentire il mio pianto, così come io non voglio sentire il suo, quando ci sentiamo soffriamo entrambi. L’ultima volta che ha parlato con sua sorella le ha detto che non lascerà la città finché non sarà liberata. Adesso sono qui con voi ma solo fisicamente, il mio cuore è lì a Kobane, accanto a mio figlio che sta difendendo l’onore della nostra terra. Questa storia non è solo la mia, è la storia di ogni madre curda. Sono solo una delle tante. Oggi sono entrata nella tenda dei feriti per vedere se fra quei corpi ci fosse anche quello de mio Hakki. Non c’era, ma ho baciato i piedi di atri tre ragazzi feriti e mentre li abbracciavo ho sentito l’odore di mio figlio; il sangue di questi giovani è il sangue dei martiri. La nostra vita è finita: ho lasciato tutto in città, casa, soldi e famiglia; vivevamo bene a Kobane, eravamo felici, e ora? Ora abito in una tenda. Ma cosa vogliono da noi? In Italia, in Europa anche gli animali hanno diritti, perché noi curdi no? I curdi non sono esseri umani? Noi non vogliamo altro che i nostri diritti, non vogliamo altro che tornare alle nostre case ed invece siamo qui con le nostre vite distrutte. Hanno cancellato la nostra identità e chi perde quella ha perso anche la sua umanità.”